Il soldi pubblici sono sempre meno, il settore che maggiormente verrà colpito da questa realtà è quello della cultura. Con britannico humor, oltremanica in Financial Times ha deciso di chiedere al compositore Julian Anderson della London Philarmonic Orchestra di interpretare, attraverso la musica il crollo finanziario: il risultato è stato un brano in cinque movimenti: Notes on a crisis.
Il problema però non è del tutto dimensionale e anzi dovrebbe offrire l’occasione per una riflessione più ampia su quelle che sono oggi le politiche culturali pubbliche (e centrali) nel nostro Paese, per lo spettacolo dal vivo e non solo.
Il problema non è soltanto quello di immettere fondi nel sistema, ma di elaborare nuove stategie e politiche culturali in grado di gestire una situazione di “povertà” che purtroppo sembra sempre meno coinvolgente.
Liberarsi del passato e della paura del futuro, fare ricorso a nuove idee e dare spazio a nuove generazioni artistiche, solo così ritengo che si possa supera l’emergenza economica attuale, non solo nel campo della cultura.
Penso che oggi continui ad agire una forma di ancoraggio ideologico al passato e a modalità consolidate di sovvenzione pubblica. Mi chiedo se ha ancora senso distribuire fondi sotto forma di sussidi e indipendentemente dal servizio offerto o da chiari risultati di performance, con un sistema che, alla fine, rafforza la “cultura della dipendenza.
La spesa pubblica, come largamente dimostrato dalla teoria economia, può diventare una forma di investimento: la cultura è un volano incredibile per condurre a uno sviluppo di lungo periodo, ma chi gestisce la cultura oggi è allievo di chi la gestiva in anni in cui l’offerta era poca e la disponibilità di risorse ampia.
Bisogna riformare i sistemi di finanziamento, sia tramite la misurazione dell’impatto che produce, sia rivedendo le forme di investimento. Il settore risente di una arretratezza notevole, sia dal punto di vista tecnologico che delle infrastrutture, ed è da lì che ritengo si debba ripartire.
Ad esempio, un aspetto comune alle imprese culturali è il numero di contratti a tempo indeterminato: sono una trappola. Una struttura professionale flessibile non significa precarietà, ma mercato delle competenze.
Dovremmo negoziare una flessibilità condivisibile. Siamo certi che un museo o un teatro non possa condividere personale con altre strutture?
Finora si è partiti dall’idea secondo la quale lo Stato deve finanziare la cultura e se non ce la fa, il dovere passa ad un altro. Ma che motivo ha lo Stato di finanziare la cultura oggi, quando essa raggiunge il 20 per cento dei cittadini e non si fa nulla per comunicarla e diffonderla? Se la si comunicasse di più, si troverebbe un maggior numero di soggetti che giudicherebbero conveniente investire in cultura.
Penso che le opportunità per il futuro siano molteplici: prestiti agevolati, bandi pubblici nell’ambito di un determinato obiettivo strategico, matching founds, esenzioni sulle donazioni e per chi opera nella produzione culturale, esenzione dall’imposta sul valore aggiunto per alcuni prodotti o istituzioni culturali.
La domanda da farsi oggi e su cui impegnarsi a lavorare per il futuro della grande tradizione culturale italiana è: è ancora tempo di una massiccia spesa diretta o, invece, è giunto il momento di aggiornare e implementare strumenti necessari all’intervento diretto? Io vorrei cominciare a lavorare sulla seconda.