Ormai è noto che tutti i quattro reattori di Fukushima sono in gravissima emergenza; sebbene l’agenzia per la sicurezza atomica giapponese continui ad affermare che la situazione non sia come quella di Chernobyl il livello dell’incidente è di 6 (su 7 della scala INES) e si differenzia, appunto, da Chernobyl solo per l’assenza dell’incendio della grafite, visto che non funziona a grafite, causa della gigantesca nube di fumo radioattivo che si sparse in Europa nel 1986.
Dopo l’approvazione, nel luglio 2009, della cosiddetta “Legge Sviluppo” e del decreto legislativo n.31 del 15 febbraio 2010, sono state ormai poste le basi per il ritorno dell’Italia alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare. Ora, alla luce della catastrofe in Giappone si riapre il dibattito e la stessa autorità politica sembra voler prendere tempo per la riflessione indotta.
Altre nazioni stanno rivedendo i propri piani energetici: ad esempio la Germania, per voce della cancelliera Angela Merkel, si sta velocemente avviando l’uscita dal nucleare per i rischi correlati a questa tecnologia, anticipando una transizione che era già prevista nei prossimi 25 anni.
Il nucleare serve solo a produrre elettricità mentre una corretta politica energetica deve basarsi innanzitutto sulla riduzione dei consumi mediante l’eliminazione degli sprechi e l’aumento dell’efficienza energetica, poi sullo sviluppo dell’energia solare e delle altre energie rinnovabili.
Le Regioni italiane possono e devono giocare un ruolo importante in tal senso, anche perché la direttiva europea 28/2009 obbliga l’Italia, entro il 2020, al 20% di risparmio di tutta l’energia, così al 20% di fonti rinnovabili e a diminuire del 20% l’emissione di CO2, coprendo il 17% dei consumi finali con energie rinnovabili; il nucleare, se realizzato, porterebbe un modesto contributo del 5% solo dal 2020. È un percorso virtuoso, nel quale non c’è spazio per scorciatoie superficiali.
Dov’è la convenienza economica a insistere su una tecnologia vecchia e pericolosa?
Dov’è l’orizzonte europeo e internazionale dell’Italia in questa scelta?
Che patto generazionale è mai quello che lascia alle future generazioni per centinaia, migliaia di anni le conseguenze di un sistema energetico che durerà, una volta costruito, 50 o al massimo 60 anni?
Non è assurdo che una battaglia tra pro e contro il nucleare debba svolgersi proprio nel paese del sole, del mare, del vento?
Una politica rivolta allo sfruttamento delle potenzialità del solare e delle altre fonti rinnovabili e alla riduzione razionale dei consumi sarebbe un motore importante per un diverso modello economico del nostro paese.
Ritengo che sia venuto il tempo di avviare una rivoluzione silenziosa basata su una filiera che parta dalle attività di ricerca nelle Università, negli enti pubblici e nelle aziende e si estenda alla produzione di materiali e alla sperimentazione su vasta scala oltre che all’installazione diffusa di impianti domestici. Un esempio ci viene dalla Germania, in cui sta per partire il progetto Desertec per la costruzione di una immensa centrale solare nel deserto del Sahara in grado di produrre almeno il 15% del fabbisogno energetico di tutta l’Europa entro il 2025.
Se solo la metà dei fondi attualmente utilizzati per la ricerca nucleare fossero destinati allo sviluppo delle fonti pulite e rinnovabili di cui il nostro paese è ricco, in poco tempo potrebbe raggiungere la piena autosufficienza energetica, senza alcun pericolo e a costi contenuti.
C’è certamente un dilemma e dunque la scelta nucleare deve essere discussa seriamente e non fatta passare come semplice decisione settoriale, con il coraggio di sottrarsi a soluzioni di parte a favore dell’interesse generale.
Sarebbe anche necessario informare in maniera corretta cosa succede quando, come a Fukushima, gli esiti del terremoto e del successivo tsunami, rendono inservibile ogni piano d’emergenza, ma soprattutto, cosa succede quando il nucleo del reattore fonde e quando la nube radioattiva si forma e si estende sul territorio e contamina abitanti, mari, fiumi, terreni e animali.