Violenza alle donne

Il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, molti, troppi, sono gli stereotipi.
Patrizia Cuzzani, Capogruppo Gruppo misto.
[n. 11 - dicembre 2011 - Dal Consiglio]

La violenza domestica è un fenomeno trasversale, non è riconducibile a particolari fattori sociali, né economici, né razziali, né religiosi. Risponde alla volontà di poter esercitare potere e controllo sulle donne, per questa ragione l’episodio violento non è quasi mai leggibile come un atto irrazionale, ma è quasi sempre un atto premeditato. Gli stessi aggressori affermano che picchiare è una strategia finalizzata a modificare i comportamenti delle proprie compagne. La stragrande maggioranza degli uomini violenti non è né alcoolista né tossicodipendente. Solo il 10% dei maltrattatori presenta problemi psichiatrici.

Si può violare picchiando con o senza oggetti, si può spintonare, tirare per i capelli, dare schiaffi, pugni, dare calci, strangolare, ustionare, ferire con un coltello, torturare, uccidere. Ma è violenza anche minacciare, insultare, umiliare, attaccare l’identità e l’autostima, isolare, impedire o controllare le relazioni con gli altri, sbattere fuori di casa o rinchiudere in casa.

Gli effetti più frequenti della violenza sono: la perdita di autostima, l’ansia e la paura per la propria situazione e per quella dei propri figli, l’autocolpevolizzazione, un profondo senso di impotenza, la depressione. L’insorgere di problemi psicosomatici, disturbi del sonno, danni permanenti alle articolazioni, cicatrici, perdita parziale dell’udito e/o della vista. Poi, ma non secondariamente, la perdita del lavoro, della casa e di altre proprietà, l’isolamento, l’assenza di comunicazioni e di relazioni con l’esterno, amicali in particolare, e le gravissime conseguenze sui figli.

Com’è che tante donne, ci si chiede sempre con disappunto subiscono gli abusi ripetuti di mariti e compagni, com’è che tacciono e non li denunciano? Le donne scelgono la relazione, non la violenza, l’amore, non l’odio. Tanti sono i vincoli che trattengono le donne e impediscono loro di prendere la decisione di interrompere una relazione violenta: la paura di perdere i figli, le difficoltà economiche, l’isolamento, la disapprovazione da parte della famiglia, la riprovazione e la stigmatizzazione da parte della società.
Le donne sperano di poter salvare la relazione, di poterne riconvertire il male in bene, di poter gestire il conflitto. Cercano di parlarne, di venirne fuori, perché quello che desiderano è una vita migliore per sé, e non necessariamente una vita peggiore, o la galera, per il partner. Non sono una minoranza di sprovvedute, quelle che tacciono sono la maggioranza, il 90% forse più.

Quando noi donne siamo avvolte nella disperazione per il non senso di un male che ci circonda possiamo reagire provando un senso di colpa che, paradossalmente, tranquillizza di più rispetto alla coscienza del male, che è talmente tanto grande da non essere riconducibile all’individuo.  Lo sgomento per la complessità del male senza nome, senza confini, può essere schivato con il trucco, con la pretesa di saperlo dominare, in realtà questi mezzi psicologici sono illusioni. Dobbiamo invece imparare ad accettare il dolore, a manifestarlo, a trovare le parole e i silenzi per dare forma umana all’impensabile, allo schianto che ci atterra interiormente. Stare in faccia e di fronte al male è assieme sfidare e patire, è chiedere “perché” e sopportare il vuoto di risposte.

Quello che si deve fare è ristabilire lo sguardo entro il quale le cose possono essere aggiustate e le domande reciproche possono finalmente diventare quelle giuste, o almeno le domande sbagliate possono cessare di agire.

Il rimedio sarebbe la rinuncia almeno parziale a essere donne: rimedio che però si basa omeopaticamente sullo stesso principio del male che si vuole curare, cioè l’impossibilità di esistere come donne. Ma allora il solo modo che abbiamo per salvarci simbolicamente o fisicamente la pelle è cambiare pelle, infilarci nella pelle dei maschi? E’ fare in modo che tutte, anche le povere del mondo siano meno donne, come noi, per poter essere? E’ avanzare tutte compattamente verso il traguardo finale, l’estinzione, la cancellazione della nostra differenza? Sparire dal mondo per poterci stare; può essere davvero questa la soluzione?
E’ questo che vogliamo? No, noi dobbiamo difendere la nostra femminilità.

Ma davanti a tutto questo, cosa fa la politica? Uno ad uno, stanno chiudendo i centri antiviolenza sparsi su tutto il territorio nazionale, soffocati dai debiti per i tagli e per l’assenza totale di finanziamenti già stanziati, nel silenzio assoluto di tutti. A Viterbo come a Messina, a Belluno come a Catania, a Roma, Cosenza e Gorizia, i centri hanno chiuso o chiuderanno a breve, in barba alle direttive che lo stesso Parlamento Europeo ha dato sul mantenimento e potenziamento dei centri antiviolenza.

Pubblicato: 30 Novembre 2011Ultima modifica: 10 Giugno 2022